sabato 15 marzo 2008

Caos nel Tibet: il reportage dell'estremorientalista di Repubblica Raimondo Bultrini.



Dall'inviato di Repubblica Raimondo Bultrini.

DHARAMSALA (INDIA) - Le notizie che giungono a Dharamsala dalla capitale tibetana Lhasa sono sempre più allarmanti. Se fino a ieri polizia ed esercito cinese avevano adottato una tattica di repressioni mirate, oggi le truppe sono state impiegate in tutto il distretto cittadino e altre sono in arrivo con la nuova linea ferroviaria da Pechino e Golmud destinata - nei progetti - a portare "ulteriore progresso".

Attraverso le organizzazioni degli esuli abbiamo potuto avere alcuni contatti di fonti non solo del dissenso, ma anche di stranieri e cinesi che lavorano in diversi progetti governativi. Riferiscono testimonianze agghiaccianti di sparatorie dalle auto in corsa contro manifestanti e semplici cittadini tibetani incontrati al loro passaggio. Il numero delle vittime varia dai dieci morti denunciati dai media cinesi e dalle autorità (quasi tutti commercianti, titolari e dipendenti di alberghi) ai cento accreditati dallo stesso governo tibetano in esilio.

La polizia ha dato tempo ai rivoltosi di consegnarsi entro la giornata di lunedì, promettendo un trattamento di favore. Vuol dire che dopo l'ultimatum la situazione peggiorerà ulteriormente.

Ormai è data per scontata, anche se non ufficialmente, la notizia dello stato d'emergenza nella capitale, ma anche in altre città come Chengdu nel Sichuan, dove vive una grande comunità tibetana. Qui le truppe hanno circondato i quartieri " a rischio" e tagliato la corrente elettrica, nell'intento - tra l'altro - di non esacerbare gli animi con le immagini delle rivolte di Lhasa diffuse invece nel resto della Cina.

"In realtà il governo mostra solo ciò che vuole", ci hanno detto diversi familiari di residenti con i quali abbiamo parlato a Dharamsala. La televisione nazionale del partito trasmette senza censure le immagini delle rivolte nell'intento affatto nascosto di mostrare il volto violento di questo popolo che distrugge negozi, auto, strutture pubbliche, uccide cittadini inermi e ferisce i poliziotti. Ma l'esasperazione - da quanto risulta ormai chiaro dalla reazione che coinvolge ogni strato della società tibetana - era ormai alle stelle.

Ieri è emersa dalle conversazioni con numerosi tibetani a Dharamsala e al telefono da Lhasa che tra i motivi scatenanti della protesta c'è stata la decisione degli Stati Uniti di declassificare la Cina nell'elenco dei paesi che violano i diritti umani. La concomitanza con i 49 anni della mancata insurrezione del 59 contro le truppe di Pechino e l'approssimarsi delle Olimpiadi ha convinto molti monaci e giovani ad utilizzare il possibile impatto mediatico per mostrare al mondo ciò che davvero sentono e pensano i tibetanti dopo 60 anni di occupazione.

Per il secondo giorno consecutivo centinaia di residenti del villaggio di Nyangra a 50 chilometri dalla capitale sono scesi in strada per protestare contro la repressione dei monaci di Sera, uno dei più grandi monasteri del Tibet. Dopo il tentato suicidio di due religiosi (vedi le foto di Lobsang Kelsang e Lobsang Damchoe) di un altro centro monastico, Drepung, che lottano tra la vita e la morte, un terzo monaco di Ganden si è dato alle fiamme e non è sopravvissuto.

Ancora incerte le conseguenze di altre manifestazioni nelle regioni lontane dal Tibet centrale dove si trova Lhasa. Di certo la gente è scesa in piazza a Shigatse, sede del grande monastero di Tashilungpo del Panchen lama, la seconda figura del buddhismo tibetano dopo il Dalai. L'importanza di Shigatse è legata a uno dei più gravi motivi di risentimento dei tibetani verso le autorità cinesi. Il Panchen insediato a Tashilungpo infatti è stato scelto dai cinesi dopo aver fatto sparire nell'ormai lontano 1995 un bambino di appena cinque anni considerato la vera reincarnazione dal Dalai lama e dagli abati del monastero.

Non è però il solo "reincarnato" deciso a tavolino dal partito: con una nuova legge ogni cosiddetto Buddha vivente deve essere sottoposto al vaglio politico dei dirigenti comunisti, e i tibetani hanno temuto di vedersi privare anche dei maestri spirituali che avevano finora alleggerito la pesantezza della condizione di servi e prigionieri dei nuovi padroni nel loro stesso paese.

L'altra regione strategica dove dilagano le rivolte è Pashu, nel Kham, una regione di confine abitata da fiere tribù guerriere e molto devote al buddismo. Le notizie giunte tra i profughi in esilio sono di un impressionante movimento di truppe che hanno bloccato tutte le strade d'accesso al distretto.

Nella città degli esuli a nord dell'India gruppi di religiosi e laici attraversano le strade del villaggio tibetano di McLeod Ganji con bandiere e striscioni gridando tutta la loro frustrazione. Se da una parte sono entusiasti della rivolta dei loro fratelli e parenti, dall'altra temono che i rapporti di forza impari possano trasformarsi in un bagno di sangue ben più grave delle cifre riferite finora. Già giungono voci di retate e arresti notturni nelle abitazioni dei tibetani sotto osservazione o riconoscuti durante le manifestazioni.

Il Dalai lama ha invitato sia i cinesi che i suoi fedeli ad evitare ogni violenza, ma è ormai chiaro che la situazione è sfuggita di mano a tutti. Da sempre una grossa fetta della popolazione non riusciva ad accettare la posizione non violenta assunta dal leader spirituale, soprattutto perché il controllo e la repressione si accompagnava a una situazione economica disastrosa per la grande maggioranza dei tibetani. Gran parte dei posti di lavoro va infatti da mezzo secolo ai nuovi arrivati cinesi che costituiscono la maggioranza della popolazione. Invece di assumere tibetani, dei quali non si fidano, richiamano i loro parenti da altre regioni della Cina. Negli ultimi anni il business con l'arrivo massiccio di turisti dall'Occidente è cresciuto enormemente, e per evitare contatti troppo diretti tra dissenzienti e stranieri in quasi ogni monastero sono stati collocati falsi monaci e lama istruiti dal partito. Lo stesso Dalai lama nel suo ultimo discorso aveva sottolineato le "massicce violazioni dei diritti umani" nel suo paese, e non aveva cercato di dissuadere i giovani tibetani partiti in marcia da Dharamsala il 10 marzo scorso per raggiungere il confine cinese in occasione delle Olimpiadi.

Dopo quattro giorni la polizia indiana, su ordine del governo preoccupato per le possibili crisi di relazioni con la Cina, li ha fermati e arrestati. Ma lunedi prossimo ne partiranno altri 44, già pronti a raggiungere la città dove sono detenuti i loro compagni.

(15 marzo 2008) - La Repubblica

3 commenti:

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