lunedì 18 febbraio 2008

Il domenicale di Eugenio Scalfari.



Walter, il Cavaliere
e l'Italia al bivio
di EUGENIO SCALFARI


Mancano 56 giorni da oggi al 13 aprile, quando gli elettori andranno a deporre il loro voto nelle urne. Nei paesi democratici quello è un momento importante: il popolo esprime la propria sovranità, sceglie chi dovrà guidarlo, gli delega la sua rappresentanza, gli affida per qualche tempo il suo destino.

In tempi di ideologie dominanti e totalizzanti le elezioni non producevano grandi cambiamenti, i confini tra le parti politiche erano netti, i flussi elettorali tra un partito e l'altro impercettibili, ma nonostante questa stabilità di superficie la società era in perenne cambiamento. Così nei primi vent'anni della Repubblica scomparve la società contadina e prese corpo quella industriale; nei secondi vent'anni emerse la consapevolezza dei diritti civili; nella terza fase avvennero fenomeni regressivi: prevalsero gli interessi di corporazione e di clientela, le forze politiche si chiusero in se stesse perdendo la capacità di rappresentanza, la corruttela pubblica diventò sistema, le istituzioni furono occupate dai partiti, l'esercizio della democrazia fu deturpato e svuotato dei suoi contenuti, sentimenti antipolitici latenti emersero impetuosamente, specie tra le generazioni più giovani.
Ora siamo arrivati al capolinea e forse sta per cominciare un'altra storia.

Dico forse perché pesano ancora i gravami del recente passato di declino e di regressione. Ma qualche cosa di nuovo si intravede ed è questo che sta dando il tono alla campagna elettorale appena iniziata. Cinquantasei giorni per capire da che parte stiamo andando e per decidere come ci comporteremo in quel breve ma decisivo momento della nostra sovranità popolare.

Ci sono due slogan o meglio due immagini lanciate dai due candidati principali ai nastri di partenza della gara.
Quello di Berlusconi è: "Alzati Italia", e quello di Veltroni: "L'Italia è in piedi ma la politica si deve alzare". Sembrano abbastanza simili, invece sono profondamente diversi.

Berlusconi chiede che gli italiani si alzino fino a lui, lo raggiungano e seguano il suo sogno e il suo carisma nel mondo dei miracoli, come avvenne nel '94, nel 2001, nel 2006 quando mancò per un soffio l'obiettivo.
Veltroni pensa invece che gli italiani siano più avanti dei politici e che spetti a questi di rinnovarsi, rompere il muro dietro il quale si sono rinserrati, abbandonare i privilegi che difendono la loro separatezza e raggiungano il Paese che anela soltanto a rimettersi in movimento. Dietro queste due diverse immagini ci sono due diversissimi approcci.

Berlusconi propone il ritorno al già visto, Veltroni vuole che tutto cambi nei programmi e nelle persone. Cambia il candidato "premier", cambiano i suoi più diretti collaboratori, cambiano i candidati al Parlamento. Berlusconi ripresenta tutti i parlamentari uscenti, Veltroni ne lascia a terra la metà ed apre la porta alle donne, ai giovani, agli imprenditori, agli operai, a volti nuovi e sconosciuti. Il partito di Berlusconi è quello di sempre, il partito di Fini allinea i soliti Gasparri, La Russa, Alemanno, Matteoli.

Il partito di Veltroni è nato dalle primarie di pochi mesi fa, dal voto di tre milioni e mezzo di persone e gli iscritti hanno già superato il milione in appena un mese dall'apertura dei "circoli", un fenomeno mai visto prima. Berlusconi ha dalla sua i sondaggi con uno scarto del 10 per cento, ma il recupero del Pd procede con una velocità notevole. Da quando ha deciso di presentarsi da solo ha guadagnato due punti. Gli ultimi sondaggi lo danno entro una forchetta tra il 33 e il 35 per cento dei consensi; l'alleanza con Di Pietro potrebbe portare quella forchetta al 37-39.

Il bacino potenziale dei due maggiori contendenti copre il 90 per cento dei consensi. Il restante 10 per cento dovrebbe andare alla sinistra radicale ed altri raggruppamenti minori. Ma in quel 90 per cento di potenziali elettori dei due partiti principali, quasi il 12 sta ancora sulla linea di confine, è disponibile a votare sia l'uno che l'altro e non ha ancora deciso tra i due.
L'esito finale sta tutto lì, in quel 12 per cento ancora combattuto tra l'astensione o il voto per l'uno o l'altro dei contendenti. Quattro milioni, in gran parte giovani e donne, il cui voto determinerà l'esito della gara.
Questo è lo stato della situazione ai blocchi di partenza.


Fuori dal recinto di gioco infuria nel mondo una tempesta economica di notevole gravità. Calano le Borse, rallenta la produzione e la domanda, la liquidità ristagna nei depositi e in impieghi a breve durata e si restringono i prestiti e i mutui. I prezzi aumentano falcidiando i redditi reali, specie quelli dei pensionati e dei lavoratori dipendenti, per conseguenza sale il livello dell'inflazione, soprattutto per quanto riguarda le materie prime e le derrate della catena alimentare.
Il 2008 sarà un anno difficile per l'economia mondiale, per l'Europa e per noi. Bisognerà preservare il discreto andamento dei conti pubblici ma contemporaneamente adottare coraggiose misure di rifinanziamento della domanda e degli investimenti trovando il giusto equilibrio tra i due pedali del freno e dell'acceleratore.

Giulio Tremonti è diventato strenuo sostenitore d'un governo di larghe intese, chiunque sia il vincitore della competizione elettorale. Secondo lui una politica economica così difficile non può esser intrapresa se non con la condivisione delle responsabilità da parte dei due partiti maggiori. Il personaggio non è tra i più gradevoli e porta sulle spalle un pesante carico di errori precedentemente compiuti, ma la sua visione del futuro è purtroppo realistica. Non altrettanto la terapia da lui proposta.

Egli è sicuro che la vittoria arriderà alla sua parte; il suo appello alla condivisione del potere sconta un futuro di difficoltà che una alleanza di governo diluirebbe. L'ordine delle priorità e la distribuzione dei carichi trova tuttavia discordi i due partiti contrapposti, sicché la gestione comune potrebbe risultare paralizzante anziché incisiva.

Il tema è comunque prematuro, specie se proposto da chi, volendo profittare d'un vantaggio elettorale, ha imposto il ricorso immediato alle elezioni facendo perdere almeno quattro mesi proprio nel momento più delicato della crisi economica internazionale.

Ormai non c'è che da aspettare i risultati del voto ma è giusto tenere sott'occhio il tema della recessione. Una cosa si può dire fin d'ora: quel tema ha sempre accresciuto il ruolo che incombe alla politica e alla mano pubblica; così è sempre avvenuto in tutto il mondo in fasi analoghe del ciclo economico. Lo tengano ben presente i dirigenti del Partito democratico che non a caso hanno Franklin Delano Roosevelt nel pantheon degli spiriti fondatori.

C'è un altro tema che sovrasta la competizione elettorale ed è quello della laicità. È cosa saggia evitarne le asprezze e respingere le provocazioni miranti a farne uno strumento incendiario con l'intento di inferocire il confronto. Se fosse soltanto questo, sarebbe facile disinnescare le bombe-carta della moratoria anti-aborto e procedere oltre misurandosi con argomenti e problemi di ben maggior peso.
Purtroppo c'è dell'altro.

Le iniziative provocatorie fungono da avanguardia ad una "reconquista" condotta dalla gerarchia ecclesiastica "versus" le istituzioni per condizionarne il funzionamento e la legislazione che ne ispira i comportamenti.

La gerarchia alterna momenti di moderazione a momenti di intervento diretto sul delicatissimo terreno della politica, dettando alleanze tra partiti, comportamenti dei parlamentari cattolici, sentenze inappellabili sulle questioni definite "indisponibili", lusinghe e minacce spesso implicite ma in misura crescente pubblicamente esplicitate.

Questo alternarsi di fasi dipende spesso dal fatto che a guidare sia il Segretario di Stato, cardinal Bertone, o il Vicario di Roma, cardinal Ruini, il primo in veste di diplomatico, il secondo di guerriero delle armate (spirituali naturalmente) pontificie. Benedetto XVI dal canto suo sembra lasciar mano libera all'uno e all'altro anche se nei documenti e nelle dichiarazioni da lui direttamente emanati appare assai più vicino al dio degli eserciti che a quello della misericordia.

Aldo Schiavone ha efficacemente descritto su questo giornale quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi come una sorta di "ondata guelfa" che starebbe rinascendo nel nostro Paese. Stefano Rodotà ha segnalato un'offensiva clericale in atto contro i diritti civili, Francesco Merlo, Edmondo Berselli e Natalia Aspesi sono intervenuti prendendo lo spunto dal vergognoso episodio avvenuto giorni fa a Napoli, con la polizia nelle corsie ospedaliere e una donna che aveva praticato un aborto terapeutico pienamente legale, sotto interrogatorio mentre si era appena risvegliata dalla narcosi.

Le ragioni per preoccuparsi di questa deriva clericale purtroppo ci sono tutte. Bisogna certamente guardarsi dal cadere nelle trappole della provocazione ma al tempo stesso non è sopportabile che la Chiesa occupi un terreno che non le è proprio e anzi le è esplicitamente vietato, nella politica, nelle istituzioni e addirittura all'interno dei partiti.

Se il cardinal Ruini ha voglia di cimentarsi politicamente la strada è molto semplice e nessuno gliela vieterà: lasci le sue cariche ecclesiali e concorra alle elezioni con un proprio partito o dentro un partito che lo accolga. Una soluzione del genere avrebbe il pregio della chiarezza, pregio che dovrebbe essere prezioso per un cattolico e per un sacerdote.


Attendevamo da molti giorni che finisse la telenovela Berlusconi-Casini, canticchiata dai due protagonisti sui versetti di "Vengo anch'io? No tu no. Ma perché? Perché no". Adesso si è conclusa: andranno alle elezioni separati.

Il Cavaliere ostenta calma e disprezzo, si sente più sicuro senza l'Udc in casa. Fini se l'è mangiato in un boccone, operazione facile perché i colonnelli di An erano già tutti al suo servizio. Con Casini era più difficile per via di Ruini.

L'Udc ha davanti a sé una strada in salita. Forse ha aspettato troppo, forse il buon momento sarebbe stato quello scelto da Follini quando si dimise da segretario e se ne andò dal partito. Un anno fa tutto era diverso e molte cose sarebbero andate in altro modo, ma con i se e i forse non si fa storia. D'ora in avanti Casini navigherà in mare aperto e sarà la prima volta nella sua vita. Può darsi che gli piaccia. Magari senza Mastella, che sarà pure credente e ruiniano come lui, ma non sembra un "asset" appropriato al rinnovamento della politica italiana.

(17 febbraio 2008) - La Repubblica

4 commenti:

Anonimo ha detto...

E' pazzesco come da un lato se la prende con Ruini, poi difende Casini braccio armato di Ruini, pur di andare contro Berlusconi, poi delegittima la probabile alleanza di Casini con Mastella perchè Mastella gli ha fatto cascare il governo amico, poi fa un salto qua, un salto là, Veltroni e hippi hippi hurrà.

Un giornalista scadente, la cui più grande intuizione è stato il formato del suo quotidiano, piccolo e compatto, in modo da non dover voltare le pagine allargando le spalle.

Nemo.

Anonimo ha detto...

La ringrazio per Blog intiresny

Anonimo ha detto...

imparato molto

Anonimo ha detto...

good start