domenica 10 febbraio 2008

Il domenicale di Eugenio Scalfari.

Il patto democratico
tra operai e borghesia
di EUGENIO SCALFARI


L'esempio del Partito democratico è contagioso: Berlusconi si agita, il centrodestra è in subbuglio, Casini minaccia di imboccare un percorso separato se non potrà confederarsi conservando autonomia, ma anche la base di An non resterà elettoralmente indifferente alla piroetta di Fini e dei suoi colonnelli, già da tempo berlusconiani.

Alla sinistra del Partito democratico un altro processo semplificatorio è egualmente in corso. Anche lì con alcune non trascurabili difficoltà. Le sigle scompaiono ma il vento potente delle elezioni cancellerà inevitabilmente le microscopiche oligarchie dell'uno virgola che tanto hanno rallentato e debilitato il percorso del governo Prodi.

La ditta Diliberto scomparirà senza traumi rientrando nella casa da cui era uscita qualche anno fa. Per i Verdi l'abbraccio con la sinistra sarà assai meno semplice e non basta certo la parola "arcobaleno" nel logo elettorale a preservarne la missione cui del resto avevano già da tempo rinunciato.

L'esperienza dei partiti ambientalisti in Europa ci dice che essi, se non hanno la forza di presentarsi da soli al corpo elettorale, sono destinati a scomparire o debbono scegliere di fare da lievito ambientalista in un contenitore ampio. Stemperarsi nel Partito democratico poteva avere un senso, nella sinistra radicale non ha senso alcuno ed equivale ad un decesso annunciato.

La funzione rinnovatrice del Partito democratico sull'intero sistema politico è talmente evidente che tutti gli osservatori e commentatori l'hanno colta e sottolineata. Rappresenta un robusto passo avanti verso un bipolarismo meno imperfetto e, perché no? verso un bipartitismo che metterebbe finalmente il nostro paese al passo con le altre democrazie occidentali, gli Usa, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, la Spagna, tanto per citarne le principali.

Ma gli effetti innovatori non si fermano qui. Altri se ne profilano non meno importanti e non privi di rischi.
L'appuntamento elettorale ne mette in prima fila alcuni, la fase successiva ne farà emergere altri dei quali tuttavia è fin d'ora possibile e utile segnalare la natura.

In prima fila ci sarà il programma economico, in corso di avanzata stesura da parte d'un ristretto gruppo di competenti che si valgono di qualificati contributi: Morando, che guida l'équipe, Boeri, Visco, Bersani ed altri ancora. Si sa fin d'ora che le liberalizzazioni vi avranno ampio spazio. Il rifinanziamento dei salari e del potere d'acquisto dei redditi bassi e medi altrettanto. L'incremento di produttività e di competitività delle imprese.

Il nuovo "welfare" configurato per bilanciare la flessibilità del lavoro. Nel complesso la parte redistributiva del programma economico avrà come base i provvedimenti già predisposti da Prodi, Padoa-Schioppa e Visco nell'ultima fase di quel governo prima della crisi, con in più interventi di detassazione e di riduzione della pressione fiscale.

Questo complesso di misure che il gruppo dirigente del Partito democratico ha ben chiare in mente dovrebbe anche avere un effetto anticongiunturale e anti-recessivo. I sintomi di rallentamento economico sono ormai evidenti in Usa e in Europa; soprattutto in Germania, con effetti diffusivi nelle altre economie dell'Unione europea.

L'Italia da questo punto di vista offre possibilità di intervento anticiclico maggiori che altrove, i redditi individuali consentono e anzi richiedono incrementi capaci di rilanciare i consumi; le liberalizzazioni insieme a radicali interventi di riforma del sistema distributivo potrebbero stabilizzare i prezzi anche di fronte ad un aumento della domanda.

Per converso c'è carenza di manodopera qualificata. Questa è una strozzatura grave alla quale bisognerebbe far fronte con offerte di lavoro a tecnici e manodopera qualificata straniera.

Si tratta insomma di un insieme complicato che richiede collaborazione tra governo, sindacati, imprenditori, commercianti, agricoltori, banche. Mercato e regole di mercato. Un "mix" appropriato per un partito riformista affiancato da un patto sociale che garantisca un appoggio di base.

Capitalismo democratico e nuovo patto sociale: così si può definire un programma idoneo all'attuale fase storica e addirittura dell'attuale andamento di "stagflation" del ciclo economico mondiale. Per attuare un programma del genere è necessario sollecitare la collaborazione del centrodestra o offrire quella del Partito democratico, secondo che la vittoria elettorale arrida all'una o all'altra parte?

Tutti ci auguriamo che nella nuova legislatura l'opposizione sia esercitata in modo costruttivo e che la maggioranza ascolti i suggerimenti dell'opposizione, ma di qui a governi di larghe intese ci corre un mare. Io ritengo che le larghe intese siano sconsigliabili, più d'intralcio che di giovamento. La maggioranza ha il compito di stabilire le priorità e le modalità della politica economica, l'opposizione quello di suggerire modifiche e appoggiare specifiche misure di generale interesse. Niente di meno ma niente di più.

Ma in altri campi la collaborazione tra le parti politiche contrapposte è invece necessaria laddove si parli di riforme istituzionali e costituzionali, non disponibili a maggioranze risicate ed occasionali.

Ci sono ancora, da una parte e dall'altra dei due principali schieramenti, larghe zone di resistenza alla collaborazione reciproca sulle riforme istituzionali.
Bisogna vincere queste resistenze che non hanno alcuna valida motivazione. Si tratta di riformare la legge elettorale affinché il pessimo sistema attuale sia modificato recuperando la libertà degli elettori di scegliere i loro candidati, magari affidando tale compito a consultazioni primarie previste per legge.

Bisogna anche varare un sistema proporzionale con elevate soglie di sbarramento, riformare i regolamenti parlamentari, e soprattutto il finanziamento pubblico: quello che è recentemente accaduto in Parlamento con la connivenza di tutti i gruppi è semplicemente vergognoso e deve essere a nostro avviso immediatamente cancellato fin dall'inizio della prossima legislatura. Infine bisognerà istituire il Senato federale in corso di legislatura.

Ma anche l'ordinamento giudiziario richiede una collaborazione bipartisan con l'occhio fisso al problema dei problemi che è quello dei tempi per una rapida giustizia. E' imperativo che il processo sia riformato e la giurisdizione esercitata con efficienza e rapidità. Lo si promette da decenni senza che alle parole siano mai seguiti i fatti. Non è più possibile andare avanti in questo modo nell'erogazione di un servizio pubblico fondamentale.

A nostro avviso queste e non altre sono le riforme da affrontare insieme. Su tutto il resto la maggioranza e il suo governo siano responsabili di attuare il proprio programma, l'opposizione eserciti uno stretto controllo parlamentare e proponga valide alternative.

Un tema che impegnerà in pieno la nuova legislatura sarà quello delle questioni "eticamente sensibili"; per dirlo in modo più concreto e semplice, il rapporto corretto tra i cattolici e i laici o meglio ancora tra la gerarchia ecclesiastica e le istituzioni della Repubblica, laiche per definizione.

Da questo punto di vista sono rimasto allibito (e non credo di esser stato il solo) leggendo sui giornali di ieri che Casini, dopo lo scontro con Berlusconi e Fini, si sia consultato sul da fare con il cardinale Camillo Ruini che sarebbe stato largo di suggerimenti e forse anche di interventi conciliativi tra l'una e l'altra fazione. Allibito. Qui non c'entra l'uso dello spazio pubblico che nessuno contesta alla gerarchia ecclesiastica. Qui un leader di partito sollecita l'intervento del cardinal vicario in una disputa tra forze politiche e il cardinale interviene. Così ho letto e mentre scrivo non mi risulta alcuna smentita da parte degli interessati.

Contemporaneamente Giuliano Ferrara lancia l'idea di
una lista, collegata con il partito di Berlusconi e di Fini, che abbia come programma la moratoria contro l'aborto. Una lista siffatta, dopo che la gerarchia ecclesiastica con il conforto esplicito del Papa ha fatto sua la campagna di Ferrara, si configura come l'entrata in campo elettorale e politico dei vescovi italiani.

In mancanza d'una pubblica sconfessione di quell'iniziativa, la lista sulla moratoria è dunque la lista della Cei. Se quest'iniziativa si materializzerà penso che il Partito democratico non possa sottrarsi a denunciare un'invasione di campo di proporzioni inaudite con tutte le inevitabili conseguenze che essa avrà sulla campagna elettorale e i contraccolpi sul rapporto fra le istituzioni laiche e quelle religiose.

C'è ancora un aspetto dell'entrata in campo del Partito democratico che merita di essere affrontato. Sarà un partito di sinistra o di centro? Le opinioni degli osservatori sono sul merito discordi mentre quelle dei diretti interessati sono univoche: sarà un partito di sinistra riformista.

Personalmente la penso come loro: un partito di sinistra riformista che ha utilmente segnato un confine con la sinistra massimalista senza tuttavia che quel confine sia presidiato da un muro invalicabile.
La novità è notevole. Nenni aveva fatto qualche cosa di simile nel 1963, aveva rotto il patto d'unità d'azione col Pci fin dal '57 dopo i fatti d'Ungheria, ma non c'era nessun muro tra i due partiti. Come non ci fu ai tempi di Craxi, almeno nelle parole. Ci fu nei fatti. Craxi faceva mostra di poter usare i due forni (quello della Dc e quello del Pci) per rendere ancor più forte il potere d'interdizione del suo 10 per cento dei voti e in gran parte ci riuscì.

E' un fatto tuttavia che la sinistra massimalista o comunista ha esercitato un potere rilevante su quella riformista nel sessantennio di storia repubblicana. Il senso comune attribuisce al Pci la responsabilità di questa deformazione della democrazia italiana rispetto alle altre democrazie europee, ma non sempre il senso comune coincide col buonsenso. E' certamente vero che il Pci ebbe in tempi di guerra fredda questa responsabilità, ma nessuno ha il buonsenso di domandarsi perché il Pci ebbe un peso determinante nella sinistra italiana mentre non lo ebbe (o addirittura non esisté) nelle altre democrazie europee.

Perché? Non è una curiosità storiografica poiché la questione ha riverberi sulla nostra attualità. La risposta potrebbe essere questa. Il Pci ebbe gran peso perché la borghesia italiana fu percorsa sempre da tentazioni trasformistiche e/o eversive e non dette mai vita ad una destra liberale di stampo europeo.

Il Partito democratico - così mi sembra - sfida oggi una destra demagogica e interpella quel poco che c'è di autentica borghesia produttiva affinché si schieri con le forze dell'innovazione che uniscono insieme i valori della libertà e dell'eguaglianza.
Dipende da questa borghesia se il partito delle riforme avrà la meglio stimolando anche - se vincerà - la destra a trasformarsi non solo nelle forme ma nella sostanza.

(10 febbraio 2008) - La Repubblica

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